MAURO RESCIGNO

Nella scenografie digitali di Mauro Rescigno, scopriamo un mondo in bilico tra l’onirico e il claustrofobico. Un apparente disordine di elementi rivela un microcosmo di ordinaria follia, racchiuso in enigmatiche bolle o in ambienti diafani, quasi asettici. Ad inquinare la perfezione di questi mondi virtuali è la presenza dell’essere umano, che nell’esasperazione dei suoi vizi e dei suoi difetti, si lascia rappresentare dai suoi simboli: uomini senza testa, fantocci e personaggi senza identità, la quale viene riacquistata solo attraverso un ruolo fittizio al servizio di una società contorta. La metafora e la critica nei confronti della nostra società è evidente in tutto il percorso artistico di Rescigno: gli scenari ipotetici che suggeriscono contesti e dinamiche sociali proiettati in un futuro prossimo, non sono poi troppo dissimili dalla società attuale. I personaggi che popolano i suoi lavori, sono spesso proiezioni deformate dell’artista stesso, come un gioco di specchi che rimanda all’infinito la stessa immagine dove ognuno di noi può riconoscersi. Il suggerimento intrinseco è quello di abbandonare le maschere e le sovrastrutture mentali, ritrovando la nostra umanità.

 

 

Selvaggia Filippini

 

Self Liberation video (2019), si apre con la stessa immagine con la quale si chiude: una presenza femminile, corrispondente a due differenti donne, intente in differenti azioni, ma entrambe riprese frontalmente, poi, brevemente, di profilo. Della donna che compare in apertura, il video mostra soltanto il viso, su uno sfondo scuro. Il volto, sebbene isolato dal corpo e messo in evidenza, appare inespressivo e inerte, finché si rende artefice di un evento inaspettato. La donna gonfia un palloncino, all’interno del quale compare una galassia. Man mano che il palloncino si dilata, fino a coprire del tutto il volto della donna, l’immagine cosmica gradualmente si dissolve lasciando emergere la presenza di un altro volto, maschile stavolta, focalizzandone la bocca, aperta in modo minaccioso. 

A questo punto il palloncino esplode e la scena cambia. Siamo ora di fronte all’immagine di una bottiglia contenente una colomba che vola in senso verticale, verso l’apertura. Dopo qualche secondo, la scena cambia di nuovo e con essa anche la musica che ha fatto finora da sottofondo. Ecco la seconda donna, le sonorità tese e stridenti della chitarra elettrica delle scene precedenti cedono ora spazio alle note melodiose di un pianoforte. Stavolta la donna compare a mezzobusto, seduta a un tavolo, vestita di nero, come i suoi capelli raccolti, in netto contrasto con l’ambiente interamente bianco che l’avvolge. Davanti a sé ha quattro rose di zucchero, che comincia a mangiare, apparentemente senza gusto, ma con determinazione, fino a svuotare il piatto. Nell’ultimo boccone di rosa compare di nuovo una galassia che invade di luce la donna, richiamando la scena di apertura, attraverso un’immagine ora familiare, ma ugualmente surreale e disorientante.

L’opera di Rescigno sembra proporre un’autoliberazione (Self Liberation) che passa attraverso la potenza spiazzante del “soggetto imprevisto della storia”, come Carla Lonzi ha definito la donna, mettendo in discussione i confini del riconoscibile e del possibile, l’idea stessa di stabilità e fissità. Si cerca una strada verso la liberazione partendo dal femminile, come simbolo di “confini trasgrediti, fusioni potenti, possibilità pericolose” (Donna Haraway). A questo rimandano, infatti, le immagini, giocose e tragiche, del cosmo nel palloncino che esplode e nella rosa che viene fagocitata, cioè ad un principio di disintegrazione e creazione, annientamento e rigenerazione, di creatività e infinità della materia – i buchi neri, dove scompare la materia, contribuiscono in realtà, alla formazione di nuove stelle e galassie, per cui un cataclisma corrisponde a un atto di creazione cosmica. Tutto è in relazione e trasformazione.

Se guardare viene prima delle parole, come scrisse John Berger, allora le immagini di Self Liberation, attraverso le varie giustapposizioni di presenze (femminile, maschile, animale), ambienti (spazio interno, esterno), oggetti (palloncino, rose, bottiglia), azioni (soffio, volo, consumo), suoni (elettronici, armonici) e colori (nero, bianco, luminescenza, oscurità) ci parlano proprio di relazionalità e trasformazione, di una simbiosi organica tra maschile e femminile, umano e non umano, reale e surreale, scientifico e immaginifico, intimo e alieno. È in questi spazi ibridi del “tra” che l’artista ci invita a cercare la dimensione della liberazione. È soltanto nell’incontro con l’altro da sé che si ritrova il sé, nella relazione inaspettata e carica di possibilità con l’alterità.

Celeste Ianniciello

 

Viaggiare attraverso le immagini che contraddistinguono il lavoro di Mauro Rescigno, è come ritrovarsi in un altrove indefinito e sospeso: paesaggi dai forti rimandi metafisici avvolti in un’ atmosfera onirica, fanno da sfondo ad  una serie di personaggi eccentrici ed assurdi, restituendo visioni altamente poetiche di un universo congelato  entro una dimensione temporale che giace a metà tra tradizione e futuro. 

 Il tutto espresso attraverso una texture digitale che sottolinea l’inconsistenza materica di scenari che paiono sempre sul punto di dissolversi e rivelare la loro natura illusoria. 

 Di contro , le singolari figure di  umanoidi, composte e solide nella loro matericità informe, sono moderne “muse inquietanti” che, annichilite, percepiscono la realtà “da lontano”, senza esserne completamente immerse;  emblemi  di un tele-sentire che è proprio di una società basata sulla comunicazione audiovisuale e telematica.

Corpi-scoria, residui dell’era post-industriale, soft-corpi di bambagia, la quale attutisce le sensazioni e filtra le relazioni: la fisicità, pur nella sue stravaganti variazioni, rimane pur sempre il punto di partenza per ogni discorso sull’uomo e sul destino della sua identità.

Dietro l’anomala “umanografia”tracciata dall’artista, infatti, sembra celarsi la morte dell’individuo in un mondo in cui la tecnologia ha preso il sopravvento, producendo menti sempre più artificiali e “disincorporate” e in cui il concetto di identità precipita inequivocabilmente verso quello di entità.

E quando si parla di entità, è del tutto inutile domandarsi se quello che era un soggetto ora sia un sito, un gruppo amicale, una sezione di un individuo, un collettivo studentesco, una tribù metropolitana…[1]

Come a dire che nelle avveniristiche visioni dell’artista, ogni dinamica sociale risulta alterata e nello spazio delle relazioni tra gli individui s’insinua un “nulla” che, parossisticamente, tutto contiene  e che a volte assume le sembianze di una nebulosa  fitta e densa, a volte di uno spazio artificiale che si perde all’infinito; un nulla che va oltre l’organico/inorganico,da cui l’umanità pare risucchiata e in cui la realtà si diluisce in un unico, sterminato cyberspace.

 

 

Simona Brunetti

 


[1] M. Canevacci, Culture Extreme. Mutazioni giovanili tra i corpi delle metropoli. Roma, 2000. p 39

 

 

 

Identity: Denied.

La dimensione umana tra virtuale e universale

di Susanna Crispino

Con l'avvento di internet […] occupiamo e viviamo due mondi differenti, ognuno con regole e

comportamenti consuetudinari propri e dotato di una logia e una percezione distinta di ciò che è

lecito e ciò che non lo è. Questi due mondi interagiscono costantemente ma possono veramente

esistere in armonia? Come si influenzano reciprocamente? Come si trasformano l'un l'altro e,

soprattutto, dopo aver trascorso sette ore e mezzo in uno stato di costante connessione, com'è

possibile tornare nel mondo offline con le stesse attese e ambizioni di prima?

Zygmunt Bauman1

Ciò che è nuovo, non consiste nel fatto che il mondo abbia poco senso, meno senso o non ne

abbia affatto. Il punto è che noi proviamo esplicitamente e intensamente il bisogno di dargliene

uno […].

Questo bisogno di dare un senso al presente, se non al passato, costituisce il riscatto da questa

sovrabbondanza di avvenimenti, corrispondente ad una situazione che potremmo definire di

“surmodernità” per render conto della sua modalità essenziale: l'eccesso.

Marc Augè2

Ogni opera d'arte ha una storia peculiare, che parte dalla sua genesi e giunge fino al

momento in cui incontra lo spettatore, trasformandosi – attraverso il suo sguardo – in altro.

Per chi la guarda può essere uno specchio, un pungolo estetico o una sfida intellettuale,

ma è certo che il confronto tra l'osservatore e l'opera riuscirà sempre a dare al primo una

“impressione”, alla seconda un senso nuovo.

Nel caso di Identity: Denied, doppia personale di Luigi Guarino e Mauro Rescigno, che ho

curato insieme ad Erica Prisco al Complesso Moumentale di San Severo al Pendino

(Napoli, 1 - 12 settembre 2017), lo spettatore si ritrova al cospetto di due lavori che hanno

come tema l'identità.

Un tema apparentemente semplice, ma che ad un'analisi più attenta non lo è affatto. Cosa

definisce l'identità di un essere umano? In linea di principio, essa afferisce la concezione

che una persona ha di sé, sia in quanto individuo che rispetto agli altri, intesi come gruppi

sociali di cui sente di fare parte o segue le regole. Significa che “Io” diventa “noi” (e si

contrappone a “loro”) in base alla nazione, all'etnia, al genere e così via, influenzando il

modo in cui un individuo si considera, si comporta e si relaziona, sia con gli altri membri

del gruppo che con quelli di gruppi differenti.

In parole semplici, l'identità di un individuo è costituita dalle sue caratteristiche proprie, ma

anche dall'adesione a regole, convenzioni e valori del gruppo sociale cui appartiene.

Non bisogna però pensare che essa sia un elemento granitico e immutabile, è piuttosto un

fattore in continua costruzione, che da un lato è influenzato dal proprio background

personale, ma dall'altro è sottoposto a stimoli continui, che gli consentono di crescere,

mutare, arricchirsi.

L'appartenenza a un gruppo sociale e la contrapposizione a ciò che è “diverso” però, sono

elementi cardine per la sua esplicitazione. Come si può definire se stessi senza

individuare l'Altro?

In una società globalizzata come quella in cui viviamo individuare “noi” e “loro” può

richiedere uno sforzo notevole: con la fine delle “grandi narrazioni3” e la disgregazione

1 Zygmunt Bauman, La vita tra reale e virtuale, a cura di Maria Grazia Mattei, Egea, Milano 2014, p. 29

2 Marc Augè, Nonluoghi, Eléuthera, Milano 2005, pp. 31-32

3 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1996

della struttura sociale tradizionale a favore di una società liquida4, i confini del gruppo cui

si dovrebbe appartenere risultano più labili che in passato e le “comunità” arrivano a

rappresentare una sorta di paradiso perduto5.

L'avvento di internet, quindi di una interconnessione che azzera i confini geografici, e dei

social network, che creano delle relazioni virtuali (e spesso fittizie) apparentemente senza

impegno e difficoltà, con una quantità di persone impensabile nel mondo reale, ha mutato

enormemente la percezione dell'identità degli individui.

Se da un lato le possibilità di confronto si sono ampliate a dismisura, dall'altro la

tentazione di chiusura nella propria zona di comfort è diventata molto più forte.

Inoltre, l'opinione di sconosciuti o quasi è diventata un elemento fondamentale per quella

che è la propria identità online, soprattutto per gli individui più giovani o deboli. Senza

voler entrare nel merito delle azioni codificate per screditare una persona o un gruppo di

persone online (dal cyberbullismo6 alle shitstorm7 pilotate su pagine social o su siti presi di

mira per i più disparati motivi), si può tranquillamente osservare che la vita “online” e

quella “offline” sono per molti ugualmente importanti, e seguono, per tutti, regole di

comportamento e codici etici diversi. Alcune azioni, come scrivere insulti, augurare i mali

peggiori o incitare alla violenza, sono compiute online da persone che in un contesto

offline considereremmo “normali”, non aggressive, persino cortesi8.

E d'altra parte, la presenza online, soprattutto su Facebook, ha un preciso cifrario estetico

e un codice di comunicazione ben definito, spesso sintetizzato in piccoli manuali e tutorial

reperibili in rete.

L'idea di questa doppia identità, divisa tra mondo online e offline, è il nucleo fondante

dell'installazione di Luigi Guarino.

Le quattro sculture che la compongono si ergono come dei mehir a due facce: su una di

esse l'inconfondibile tratto aguzzo dell'artista delinea le fattezze di un uomo o di una

donna; sull'altra uno specchio in frantumi restituisce all'osservatore schegge di se stesso,

come simbolo sia della dissociazione dell'individuo nella sfera sociale online/offline, che

della sua difficoltà ad affermare una identità propria sotto il peso delle continue pressioni

esercitate dai ruoli che gli sono imposti, dalle convenzioni che è tenuto a rispettare, dai

canoni cui deve conformarsi

Ogni scultura appare come una monade, suggerendo l'isolamento dell'individuo nella

costruzione di un'apparenza artefatta e la difficoltà a relazionarsi con gli altri in modo

diretto.

I soggetti ritratti hanno, tutti tranne uno, gli occhi chiusi, indossano i simboli del loro genere

(la cravatta o il reggiseno) e si “affacciano” alla scultura con espressioni innaturali, come

se si stessero mettendo in posa per scattarsi un selfie. L'unico ad avere gli occhi aperti

sembra più spaventato che vigile, come se il vedere lo mettesse improvvisamente davanti

all'aspetto grottesco del suo mostrarsi e della sua omologazione a modelli privi di

4 Z. Bauman, Modernità Liquida, Laterza, Bari 2000

5 Z. Bauman, Voglia di Comunità, Laterza, Bari 2001

6 Per una definizione si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Cyberbullismo

7 Tecnicamente “shitstorm” indica un'azione di massa compiuta su una pagina o un profilo social

“colpevole” di diffondere idee che non si condividono. Generalmente consiste nell'inserire commenti

offensivi o insulti sotto ogni post o, nel caso di attività commerciali e simili, redigere recensioni negative.

Per qualche tempo (2014) shitstorm ha indicato anche un gruppo di persone che si inseriva in maniera

fraudolenta nei gruppi di discussione o nelle pagine facebook, rubandone il controllo agli amministratori.

8 Le definizioni per le persone che si comportano in questo modo (pur nelle diverse sfumature di senso) si

sprecano: haters, leoni da tastiera, cyberbulli. Celebre è quella utilizzata dal giornalista Enrico Mentana

per suo commentatore che si scagliava contro gli immigrati, a suo dire ospitati in hotel a cinque stelle,

ovvero “webete”. https://www.wired.it/attualita/media/2016/08/29/mentana-webete-idioti-informazionenetwork/

significato.

L'altra faccia della scultura è uno specchio. Elemento simbolico per eccellenza, sia del

contesto artistico (si pensi alle “vanitas”) che di quello sociologico e psicologico (uno

studioso su tutti: Jacques Lacan), in questo caso rimanda un'immagine frammentaria.

Lo spettatore viene riflesso in piccole schegge dalle forme irregolari, come a voler

rappresentare la frammentarietà dell'essere nel mondo, le differenti istanze che

compongono l'identità di un individuo.

Lo specchio fa da ponte tra i soggetti rappresentati e lo spettatore stesso, lo invita a

chiedersi se è poi così distante dagli uomini e dalle donne sospesi dall'altra parte, se la

sua identità online e quella offline siano congruenti o se, invece, la sua immagine è

deformata dal “muro di vetro”.

Alla visione individuale di Guarino fa da contraltare quella escatologica del video di Mauro

Rescigno, Run After, in cui un uomo è impegnato in un'affannosa corsa, apparentemente

senza meta, lungo un “cerchio nel cerchio”, ovvero uno dei simboli più antichi del dio

creatore precristiano, generalmente associato al Sole.

Sotto di lui, accompagnato da una musica ipnotica composta e suonata dallo stesso

artista, scorrono le immagini di un viaggio attraverso lo spazio siderale, dalla via Lattea al

Sole, come per suggerirgli che la sua appartenenza all'universo è il significato

dell'esistenza, che tanto affannosamente ricerca. Il cerchio-sole evoca quindi anche il

cerchio della vita, il cui moto infinito riconduce l'uno al tutto e l'universo all'uno. Le

sequenze che scorrono al suo interno sono realizzate con un software che simula ogni

elemento e corpo celeste conosciuto nell'universo. Il percorso che esse costruiscono nei

pochi minuti del video è in realtà un viaggio attraverso migliaia di anni luce. Nello

spazio/tempo irreale, in cui siamo immersi grazie al video, la corsa del singolo uomo del

video diventa il moto vitale di tutti gli esseri umani.

In questo caso, l'identità non viene declinata come un elemento individuale, ma come

quella – molteplice – di tutta l'umanità, l'esistenza del singolo diviene parte dell'esistenza

di tutti i suoi simili, il “tempo assoluto” che era già stato negato dalla teoria della relatività,

viene ricondotto all'inevitabilità della progressione della freccia del tempo9.

È quindi nell'appartenenza al “tutto” inteso come l'universo nella sua totalità, che la vita

umana ha il suo senso più profondo.

La prospettiva che porta l'essere umano a cercare una risposta individuale ad un

interrogativo collettivo, ovvero al senso dell'esistenza, può dipendere da quella che nella

ricerca antropologica di Marc Augè viene definita come la terza condizione che

caratterizza la surmodernità, ovvero la fase storica che segue la postmodernità e che è

caratterizzata dall'eccesso di avvenimenti, di spazio e, appunto, di individualità10.. Un

eccesso egotico che si spiega attraverso il mutamento di coordinate che ha interessato le

società occidentali globalizzate, in cui, da un lato, «l'individuo si considera un mondo in

» e dall'altro «[...] mai le storie individuali sono state così esplicitamente implicate nelle

storie collettiva, ma al contempo mai i riferimenti dell'identificazione collettiva sono stati

così fluttuanti11».

9 In base a quanto postulato da Stephen Hawking: «[...] le leggi della scienza non distinguono fra le

direzioni del tempo in avanti e all'indietro. Ci sono però almeno tre frecce del tempo che distinguono il

passato dal futuro. Esse sono la freccia termodinamica: la direzione del tempo in cui aumenta il

disordine; la freccia psicologica: la direzione del tempo in cui ricordiamo il passato e non il futuro; e la

freccia cosmologica: la direzione del tempo in cui l'universo si espande anziché contrarsi». S. Hawking,

Dal Big Bang ai buchi neri, in: http://www.fmboschetto.it/tde/lettura_5.htm

10 Marc Augè, Op. Cit

11 Marc Augè, Ivi, p. 38

Run After riesce a rendere quindi la condizione umana contemporanea o, se si preferisce,

“surmoderna”, attraverso la sfiancante corsa di un uomo occidentale (l'artista stesso)

lungo il dipanarsi del cosmo.

La relazione tra i lavori di Guarino e Rescigno denota, pur nelle differenze stilistiche,

notevoli elementi comuni. Innanzitutto il rifiuto dell'art pour l'art, cui essi contrappongono

l'idea di un'arte pienamente inserita nel presente e nel mondo reale. Inoltre, entrambi

partono da un'osservazione di radice sociologica, anche se declinata diversamente.

Guarino si muove in base ad un'impostazione attenta all'influenza della tecnologia e della

comunicazione social sull'evoluzione dei rapporti tra gli esseri umani e di ogni essere

umano con se stesso. Rescigno invece appare legato ad un'indagine di stampo filosofico,

in cui i riferimenti simbolici affondano le radici nel simbolismo arcaico e precristiano (come

nel caso del cerchio-nel-cerchio). Tali differenze appaiono per certi versi paradossali,

perché, a dispetto dell'attenzione alla tecnologia, Guarino utilizza mezzi tradizionalmente

riconosciuti come "artistici" (il disegno, la scultura) mentre Rescigno, pur muovendosi

lungo una linea di indagine tradizionalmente speculativa, predilige un mezzo altamente

tecnologico, che fatica a inserirsi nel sistema dell'arte, ovvero il video digitale.

Entrambi situano i loro lavori in una dimensione sospesa, in cui mancano riferimenti

puntuali: il tempo è sospeso, lo spazio è assimilabile al vuoto. La tensione verso un

concetto "universale" (nel senso di slegato dal particolare) che informa le sculture e il

video appare, anche questa volta, opposta: le figure di Guarino sembrano "affacciate" in

un eterno presente, ovvero nella dimensione temporale tipica dell'universo virtuale,

cristallizzate in un selfie grottesco e inquietante, mentre l'alter ego digitale di Rescigno

vive in un loop infinito, il suo tempo non ha né inizio né fine, il suo moto perpetuo non

conosce presente, passato o futuro, perché li riunisce tutti.

Il dialogo creato dalle due installazioni offre quindi allo spettatore un viaggio attraverso la

dimensione umana che si dipana lungo due direttrici parallele: da un lato la vita virtuale del

singolo, con tutte le sue implicazioni quotidiane, dall'altro quella universale che, pur nelle

differenze di ogni essere umano, trascende dal singolo individuo per appartenere a tutta

 

l'umanità.

UNA MODERNA METAFISICA

 

Stefano Taccone: I paesaggi che costruisci nelle tue elaborazioni digitali sono da considerarsi come riflesso di una condizione interiore o come visualizzazione di una percezione esterna?

Mauro Rescigno: Pongo i miei sensi in condizione di recepire input esterni che poi si traducono in immagini. I miei ambienti sono molto freddi, come di acciaio inox o di superfici specchianti. I colori sono glaciali, cupi. Tutto questo diventa metafora di un mondo esteriore che mi appare sterile, ma anche disordinato, come le figure e gli oggetti sparsi qua e là. È come se non avessero un punto di riferimento preciso.

ST: In effetti è come se si fossero trovati improvvisamente lì senza sapere nemmeno il perché. A proposito delle figure che popolano i tuoi spazi è curioso notare come tu costringa un coniglio, un lupo, un cavallo, cioè la quintessenza della naturalezza, a muoversi nel regno dell’artificio assoluto. Penso, ad esempio, al fatto che anticamente il coniglio era considerato simbolo di fertilità. Non va tralasciato di notare poi come gli animali da te scelti siano tutti riconducibili alla tradizione favolistica europea.

MR: Già, ma in questo ambiente tutto ciò viene sottratto, raffreddato. L’essere umano è mostrato in una condizione degenerata, quella della vecchiaia. Tutti gli elementi prelevati dall’esterno, animati o inanimati che siano, qui dentro diventano metafora di una solitudine esistenziale che è senza tempo, poiché non si intravede né origine né fine.

ST: Tutto questo malessere è per te riferibile ad una ipotetica “natura matrigna” ad un particolare condizione storica e sociale?

MR: Mi atterrei fondamentalmente a quest’ultima opzione. È la mia personale sensibilità che mi induce ad osservare tale condizione ed a filtrarla per mezzo della mia attività artistica. Io stesso mi considero parte integrante del mondo che rappresento, tanto è vero che le figure di anziani che compaiono nelle foto sono ottenute a partire dalla mia stessa immagine invecchiata di cinquant’anni. Credo che attualmente viviamo una preoccupante carenza dei valori umani, cui corrisponde una violenta pulsione egoistica. A ciò si aggiunge una volontà di costruirsi attorno una realtà artefatta.

ST: Non c’ è rispetto quindi per la dimensione prettamente organica dell’uomo. Siamo di fronte ad una costante mortificazione delle facoltà umane.

MR: Delle facoltà umane ma soprattutto dell’interiorità umana: ecco perché Internal Route. Non è in gioco solo la mia interiorità personale, ma quella dell’essere umano in generale. Egli percorre una strada, ma ben presto si trova ad avvertire un sentimento di “assenza”.

ST: La tua è dunque una ricerca sociale, ma a patto di intendersi sull’accezione specifica da attribuire a questo aggettivo. Non fai mai riferimento a fatti specifici, magari di cronaca, alla maniera, per intenderci, di un Hans Haacke o di un Alfredo Jaar. Fotografi piuttosto una situazione molto generale.

MR: E non faccio mai riferimento nemmeno ad ambienti specifici.

ST: Quanto ai tuoi ambienti c’ è da rilevare come essi paiano istituire una moderna metafisica. Moderna perché se De Chirico un secolo fa mostrava colonne, statue ed altre vestigia del passato, tu attingi direttamente all’immaginario visivo del Ventunesimo secolo. Nello stesso tempo, come in De Chirico, i tuoi scenari sono silenziosi e sospesi, ma connotati da presenze incongrue. Proprio dall’incongruità discende l’aspetto inequivocabilmente ironico dell’opera di De Chirico, benché quest’ironia non venga sempre adeguatamente sottolineata. È un’ironia amara, in quanto scaturente dalla constatazione dall’assurdità dell’essere, della vita, del mondo. Anche tu, nel momento in cui accosti una macchina che si capovolge al coniglio che fugge, crei dei cortocircuiti molto forti.

MR: La mia intenzione è sicuramente quella. In passato sono stato molto affascinato dalla pittura di De Chirico e dalla Metafisica, ma anche dall’opera dei surrealisti, in particolare di Magritte. Il mio linguaggio è rimasto indelebilmente segnato dal confronto con queste esperienze. Grande importanza ha avuto poi anche il cinema, specie quello di fantascienza. Su tutti 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. L’ultima parte del film, dove il protagonista si vede invecchiato in una stanza silenziosa e completamente bianca, ha lasciato in me una particolare impronta. Probabilmente, e forse inconsciamente, esso emerge anche nel ciclo di Internal Route.

ST: Quasi una citazione.

MR: Non proprio, ma una reminiscenza sicuramente. Il linguaggio visivo adoperato da Kubrick è senz’altro entrato a far parte del mio repertorio visivo e ne sono anche contento.

ST: Ma quale reazione speri di suscitare nei tuoi spettatori nel momento in cui li poni di fronte ad uno scenario così problematico e scabroso? 

MR: Innanzitutto una reazione emotiva. Vorrei porre lo spettatore in condizione di percepire quello che io provo dall’osservazione della realtà prima che si traduca in immagine.

ST: Miri all’empatia?

MR: All’empatia ma anche allo spaesamento.

ST: Ecco che ritorniamo a De Chirico. Ma a che scopo cercare lo spaesamento?

MR: Per me è metafora di una condizione interiore in rapporto al sistema.

ST: Metafora dell’alienazione umana prodotta da un determinato assetto di potere.

MR: È come l’astronauta sospeso nello spazio senza gravità, allo sbaraglio.

ST: Già, ma vorrei approdare ad una questione ulteriore: pensi che la rappresentazione di tale condizione possa in qualche modo aiutare la società a guarire dai mali che tu additi?

MR: Non ho la presunzione di cambiare il mondo. Probabilmente l’arte non possiede tutto questo potere, forse non lo ha mai avuto. Può evidenziare aspetti che fanno parte della realtà, ma certo non ha la forza di cambiarla. Si può solo sperare che lo spettatore possa percepire alcuni concetti e rifletterci su. Se l’arte diventa uno strumento di riflessione forse è già una grande conquista.

ST: Passando attraverso la riflessione, e quindi attraverso la presa di coscienza, si può verificare un cambiamento, dal momento che esso non può propagarsi all’esterno se non risiede prima nelle coscienze.

MR: Prendere coscienza è assai più difficile di quanto appaia. Forse vi è una tendenza diffusa a cestinare, ad assimilare informazioni nel lasso di tempo più breve possibile, affinché non abbia luogo alcuna lettura critica, ed a conservarne poi soltanto una piccola parte, tralasciandone il resto.

ST: Intendi dire che abbiamo sviluppato degli anticorpi che ci permettono di tralasciare ciò che più ci crea problemi e che quindi siamo restii ad affrontare?

MR: Forse tendiamo a prendere ciò che ci piace.

ST: Tendiamo a vedere il bicchiere mezzo pieno prima ancora del bicchiere mezzo vuoto.

 

MR: E’ possibile, ma rimane un bicchiere riempito a metà.

 

Intervista di Stefano Taccone, 2007